CRIMEN MAGIAE: da Apuleio alla congiura magica contro Urbano VIII
- Avv. Andrea Guidi
- 14 apr
- Tempo di lettura: 3 min
Aggiornamento: 18 apr
Mi è capitato, nuovamente, di occuparmi di una modesta vicenda giudiziaria di magarìe: truffa ed estorsione eseguite minacciando strali magici.
Si sa: per la giurisprudenza, è truffa se il male minacciato non dipende dalla volontà della megera ("posso salvarti - dietro compenso - da un tremendo maleficio"); è estorsione se l'agente, invece, sostiene di poter sparare, personalmente, la pallottola voodoo.
A leggere le cronache sembra che questa specie, arcaica, di delitti conosca una nuova fioritura, favorita dall'anonimato garantito dal web.
Crimen magiae: siamo nel cuore di un'illustre tradizione; l'imputato più celebre fu Apuleio da Madaura, l'autore dell'Asino d'oro, che nel 158 d.C. fu accusato, dai parenti di sua moglie, Emilia Pudentilla, facoltosa, e matura, vedova tripolina, di averne conquistato il cuore, e il patrimonio, mediante incantesimi.
La Lex Cornelia de sicariis et venefici(i)s proposta da Silla nell'81 a.C. puniva severamente la pratica delle arti magiche, ma Apuleio, che di magia qualcosa ne sapeva (era stato iniziato, a Cartagine, ai misteri di Esculapio e, ad Atene, ai misteri Eleusini), ed era anche avvocato, decise di difendersi, da solo, dinanzi al proconsole Claudio Massimo nel processo che si celebrò in quel di Sabratha.
Le accuse erano basate su prove insignificanti, come il possesso di una polvere dentifricia e di uno specchio, elementi probatori che Apuleio ridicolizzò facendo l'apologia - ante litteram - dell'igiene dentale e sostenendo come lo stesso Socrate esortasse i suoi discepoli a specchiarsi per valutare se la loro condotta fosse virtuosa come la loro apparenza.
Ma il colpo di scena difensivo fu la produzione del testamento di Pudentilla che istituiva erede suo figlio Pudente e non il marito, facendo venir meno il movente egoistico del preteso incantesimo.
Apuleio fu assolto e la sua orazione, "Apologia o Pro se de magia liber" resta un brillante esempio di oratoria giudiziaria di età imperiale.
Un altro celebre processo per questo tipo di crimini, molto più vicino a noi nel tempo, è quello relativo alla congiura magica contro Urbano VIII. Una vicenda grottesca, però, finita tragicamente.
Siamo nelle Marche del 1600, un giovane ascolano di modeste origini ma di belle speranze, Giacinto Centini, grazie all'elezione alla porpora cardinalizia di suo zio Felice, accumula un rispettabile patrimonio e compie una brillante scalata sociale sposando, grazie agli offici del potente zio, la nobildonna Girolama Malaspina.
Il patrimonio di Giacinto, nel tempo, si accresce di altri beni donatigli dallo zio, tra i quali una bella villa nel contado di Spinetoli, già di proprietà dei Guiderocchi.
Desideroso di maggiori glorie, Giacinto immagina che lo zio Cardinale possa ascendere al soglio di Pietro. Speranza vana, in quanto, alla morte di Gregorio XV, nel 1623, viene eletto Papa Maffeo Barberini col nome di Urbano VIII.
Nella mente del giovane Centini si fa largo l'idea che si possa affrettare la morte del Papa regnante con mezzi magici e prende contatto con tale fra' Bernardino da Montalto che ha fama di negromante: il frate gli assicura che, tolto di mezzo il Barberini, suo zio avrebbe ottenuto il triregno.
Il frate, per compiere la scellerata impresa, ingaggia altri due religiosi pratici di arti oscure, l'agostiniano fra' Domenico Zancone da Fermo e il minorita fra' Cherubino Serafini da Ancona.
Alla presenza di Giacinto, in un sotterraneo della villa di Spinetoli, dinanzi ad una statua di cera raffigurante il Papa, che si andava liquefacendo al calore delle candele, i tre officianti celebrano i loro riti. Fra' Cherubino colpisce furiosamente con un coltello l'effige semi-fusa.
Ovviamente la ferrea salute di Urbano VIII non viene scalfita minimamente dalle attività negromantiche dei congiurati, che tentano, altre due volte, inutilmente, di accoppare il Sovrano con l'aiuto dei demoni.
Queste vicende, però, scuotono la coscienza di fra' Domenico, che decide di confessare, al Sant'Uffizio, tutti i particolari della storia.
Per sventura dei congiurati, nel 1631 era stata pubblicata la Bolla Inscrutabilis indiciorum Dei che comminava la scomunica e la pena di morte a coloro che avessero attentato, con arti magiche, alla vita del Papa o dei suoi parenti entro il terzo grado.
Il povero Giacinto, durante il processo, sostiene, senza successo, di aver ingaggiato fra' Bernardino quale rabdomante per cercare antiche statue sepolte nelle fondamenta della sua villa, ma poi crolla e confessa il misfatto.
La sentenza è durissima: fra' Domenico, il delatore, ed altri imputati minori, sono condannati a pene miti, ma Giacinto, fra' Bernardino e fra' Cherubino sono condannati a morte.
Il 23 aprile del 1635, in Campo dei Fiori, di fronte ad una folla sterminata di romani, Giacinto Centini viene decapitato; i due frati, invece, vengono impiccati e i loro corpi bruciati e le ceneri gettate nel Tevere. L'evento è memorabile, sotto la mannaia del boia cade la testa del nipote di un Cardinale di Santa Romana Chiesa.
Secondo le cronache, Giacinto si comporta con grande coraggio e dignità, non senza aver, prima, scritto allo zio rallegrandosi che il Papa gli avesse fatto "la grazia di morte da cavagliero".
Oh gran bontà de' cavallieri antiqui!

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