1. La definizione di “esterovestizione”
L’idea di spostare la propria impresa in un paese diverso dall’Italia, allo scopo di ottenere un risparmio tributario, non è per certo particolarmente innovativa ma, nonostante la crescente globalizzazione economica, vi è ancora il forte rischio che ciò possa configurare un’ipotesi di cd. “esterovestizione”.
Una società compie esterovestizione nel momento in cui, al solo scopo di essere assoggettata ad un regime fiscale più favorevole, costituisce fittiziamente società o stabili organizzazioni all’estero. L’esterovestizione di per sé non integra alcuna fattispecie criminosa, semplicemente, nel momento in cui venisse dimostrato che la residenza “estera” dell’impresa fosse fittizia, questa verrebbe considerata come residente in Italia, e, se l’impresa, negli anni, considerandosi residente all’estero, non avesse presentato le dichiarazioni fiscali allo Stato italiano, potrebbe essere chiamata a rispondere del reato di omessa dichiarazione, ex articolo 5, Decreto Legislativo 10 marzo 2000, n. 74.
2. Lo scopo dell’esterovestizione
Nonostante una risalente giurisprudenza che riteneva si potesse parlare di esterovestizione ogni qual volta l’intento del contribuente fosse esclusivamente quello alleviare il proprio carico fiscale, attualmente è pacificamente ritenuto che l’intento di ottenere un vantaggio tributario, non sia, da solo, sufficiente ad integrare la fattispecie criminosa.
Questo, in ragione del “principio di libertà di iniziativa economica dei privati”, di cui all’ articolo 41 della Costituzione, in ossequio al quale lo Stato non può inibire la possibilità che un privato possa scegliere di stabilire le proprie attività economiche all’estero. La circostanza che tale scelta venga operata per mere ragioni fiscali non cambia la situazione, poiché il livello di imposizione fiscale è un fattore economico non indifferente per un imprenditore[i].
La questione è illuminata dalla sentenza della Cass. civ. Sez. 5, n. 2869 del 07/02/2013, n. 2869, Rv. 625687:
"Ai fini della configurazione di un abuso del diritto di stabilimento, nell'ipotesi di esterovestizione, ossia di fittizia localizzazione della residenza fiscale di una società all'estero, non è necessario accertare la sussistenza di ragioni economiche diverse da quelle relative alla convenienza fiscale, ma, invece, occorre verificare se il trasferimento in realtà vi è stato, o no, cioè se l'operazione sia meramente artificiosa, consistendo nella creazione di una forma giuridica che non riproduce una corrispondente e genuina realtà economica”
Per ritenere integrata un’ipotesi di esterovestizione sarà, dunque, essenziale dimostrare che la società non abbia effettivamente operata all’estero.
3. La norma
Per giungere a questo arresto giurisprudenziale, i giudici hanno dovuto quindi bilanciare, da un lato, il portato dell’articolo 41 Cost. e la normativa europea in tema di diritto di stabilimento, dall’altro le leggi interne in materia tributaria.
In particolare, in subietta materia, rileva il dettato dall’articolo 73, comma 3, del DPR n. 917/86:
“Ai fini delle imposte sui redditi si considerano residenti le società e gli enti che per la maggior parte del periodo di imposta hanno la sede legale o la sede dell’amministrazione o l’oggetto principale nel territorio dello Stato “.
Abbiamo quindi a disposizione due parametri, il primo di natura temporale: “la maggior parte del periodo di imposta”, il secondo, di natura oggettiva, prevede varie ipotesi alternative: è sufficiente che all’interno del territorio italiano si trovi la sede legale, quella amministrativa ovvero l’oggetto principale dell’impresa.
Oltre ai summenzionati parametri abbiamo anche un’importante presunzione iuris tamtum contenuta nell’articolo 73, comma 5-bis, del DPR n. 917/86:
“Salvo prova contraria, si considera esistente nel territorio dello Stato la sede dell’amministrazione di società ed enti, che detengono partecipazioni di controllo, ai sensi dell’articolo 2359, primo comma del Codice civile, nei soggetti di cui alle lettere a) e b) del comma.[ii].
Questo se, in alternativa: – sono controllati, anche indirettamente, ai sensi dell’articolo 2359, primo comma, del Codice civile, da soggetti residenti nel territorio dello Stato; – sono amministrati da un Consiglio di amministrazione, o altro organo equivalente di gestione, composto in prevalenza di consiglieri residenti nel territorio dello Stato”.
L’ articolo 2359 del Codice civile, descrive le nozioni di controllo di diritto e di fatto di una società. Sostanzialmente il controllo di una società è imputato a chi detiene la maggioranza dei voti dell’assemblea societaria, ovvero una quantità di voti sufficiente a determinare un’influenza dominante nella medesima assemblea.
Riassumendo, si presumono come residenti nel territorio dello Stato italiano, tutte le imprese che vengono gestite o controllate da soggetti, persone fisiche o società, residenti nel territorio dello Stato.
4. La Giurisprudenza
Dunque, si parlerà di esterovestizione, quando un’impresa, nominalmente residente all’estero, è in realtà gestita o controllata, di fatto, da soggetti residenti in Italia. Non risulta però agevole discernere tra i casi in cui l’impresa sia effettivamente trasferita all’estero da quelli in cui, nonostante il trasferimento, la gestione sia rimasta nelle mani di persone residenti in Italia, e all’interno della sede amministrativa altro non si faccia che dare esecuzione a decisioni prese dai “veri amministratori”.
In questo neanche la giurisprudenza della Corte di legittimità è riuscita a prendere una direzione univoca. Difatti possiamo quantomeno ravvisare due diverse correnti all’interno delle decisioni di legittimità.
La prima, per il configurarsi dell’ipotesi criminosa, non richiede che l’impresa estera sia “una forma completamente virtuale e fittizia dell'Ente, in quanto solo apparentemente esistente”[iii] ma ritiene che sia necessario e sufficiente che si “abbia stabile organizzazione in Italia”[iv], perché si possa considerare, ipso facto, artificiosa la sua sede legale estera. Ovviamente per comprendere dove un’impresa abbia “stabile organizzazione” la Corte considera il luogo ove la società abbia la sua “sede decisionale” e dove svolga l’oggetto principale della stessa. Riallacciandosi in questo modo ai concetti analizzati finora.
Di contro, altre sentenze restringono l’ambito della rilevanza penale, richiedendo, perché sia configurabile l’esterovestizione, che nelle sedi estere non venga compiuto atto alcuno e che quindi si debba trattare di sedi meramente apparenti:
“Con il che, però, si ammette che qualcosa in (OMISSIS) effettivamente si faceva, sì da giustificare una sede amministrativa collocata in una struttura diversa da quella legale” [v]
Si è voluto quindi, in questo caso, dare priorità all’attività svolta dalla società estera, risultando in questo caso sufficientemente autonoma, nonostante venisse effettivamente controllata dalla “sede centrale” residente in Italia.
La questione, quindi, risulta in ultima analisi ancora lontana dall’avere una soluzione univoca essendo i concetti di “artificioso” e di “stabile organizzazione” tali da lasciare un margine di discrezionalità troppo ampio all’interprete.
Vale però la pena sottolineare come, mentre a seguito della celebre decisione Cadbury Schweppes[vi] della Corte di Giustizia UE, le Corti nazionali, hanno incominciato a garantire maggiormente la libertà di stabilimento, applicando l’interpretazione più restrittiva possibile alle ipotesi di esterovestizione, negli anni successivi vi sia stato un incremento delle sentenze che consideravano con maggiore ampiezza le condotte configuranti un fittizio trasferimento all’estero di una società.
Difatti con la sentenza di Cassazione n. 10098 del 2020[vii], la Suprema Corte, facendo espressamente riferimento alla sentenza Cadbury Schweppes, ha dichiarato che non sussiste distonia tra i principi del diritto comunitario, così come interpretati dalla Corte, e la possibilità di confermare l’artificiosità di una sede estera di una società sulla base dell’esistenza di una stabile organizzazione della medesima impresa nel territorio italiano.
Nello stesso senso è la recentissima sentenza Mazzecchi[viii], in cui la Corte di Cassazione ha indicato, come punto centrale della questione, il luogo in cui vengono prese le decisioni strategiche ed in cui viene espletata la gestione amministrativa. Poco rilevante secondo i Giudici, è il luogo nel quale vengono adempiuti gli obblighi contrattuali ed espletati i servizi.
[i] Cfr. Cass. civ., Sez. 5, n. 21221 del 29/09/2006; Cass. civ., Sez. 5, n. 8772 del 04/04/2008; Cass. civ., Sez. 5, n. 10257 del 21/04/2008 [ii] Sono soggetti all'imposta sul reddito delle società: a) le società per azioni e in accomandita per azioni, le società a responsabilità limitata, le società cooperative e le società di mutua assicurazione, nonché le società europee di cui al regolamento (CE) n. 2157/2001 e le società cooperative europee di cui al regolamento (CE) n. 1435/2003 residenti nel territorio dello Stato; b) gli enti pubblici e privati diversi dalle società, nonché i trust, residenti nel territorio dello Stato, che hanno per oggetto esclusivo o principale l'esercizio di attività commerciali; [iii] Cfr. Cass. Civ. Sez. 5, n. 2869 del 07/02/2013 Rv. 625687 - 01 [iv] Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 06-02-2020) 06-03-2020, n. 9090 [v] Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 24-10-2014) 30-10-2015, n. 43809; Cass. Civ. sez. V, nn. 33234 e 33235 del 2018 [vi]
, sentenza del 12 settembre 2006, C-196/04, ECLI:EU:C:2006:544 [vii] Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 27-11-2019) 16-03-2020, n. 10098 [viii] Cass. pen. Sez. III, Sent., (ud. 06-02-2020) 06-03-2020, n. 9090
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